Sono passati 5 anni da quando, pad alla mano, avevamo vestito i panni del Doom Slayer, guerriero corazzato acerrimo nemico dei demoni che popolano l’inferno. Oggi, nel 2025, Bethesda ci riporta questo titolo, e dopo l’inaspettata (neanche troppo) e gradita uscita del Remake di Oblivion, possiamo finalmente tornare a massacrare le forze del male grazie a un nuovo capitolo della saga, DOOM: The Dark Ages!
L’ambientazione è senza dubbio il primo dettaglio che salta all’occhio. Questo nuovo capitolo è, infatti, un prequel del reboot avviato da Bethesda nel 2016, e vede il Doom Slayer muoversi non troppo agilmente (poi vedremo come mai) in un contesto che vuole ricordare quello medievale, perciò più oscuro e sporco, ultra violento e distante dalle atmosfere infuocate dei precedenti capitoli. L’aspetto visivo è convincente, ottenebrante, e delizia lo spettatore con un comparto grafico al passo con la generazione corrente. Insieme a questo si aggiunge un focus maggiore sull’aspetto caratteriale, non del Doom Slayer, ovviamente, ma del cast che lo circonda. I personaggi, sebbene non memorabili, parlano e interagiscono narrativamente più di quanto ci avessero abituati in passato. Questo è sia un bene, perché porta con sé qualche grammo di novità, che un male, data la comunque scarsa incisione che i personaggi apportano a una trama non del tutto rinnovata. E poi parliamoci chiaro: chi sceglie di giocare a Doom per vivere una storia che non sia al 90% massacrare tutto ciò che è dannato?
L’altra maggior novità è il dotare di scudo il nostro amato guerriero corazzato. La scelta è azzeccata perché offre una varietà che, sebbene all’inizio non lo dimostri pienamente, finisce per cambiare le carte in tavola un po’ di tutto il gunplay e oltre, anche del gioco stesso. Con lo scudo, il nostro protagonista sarà certamente in grado di difendersi, ma anche di contraccare nella più classica modalità di parry. In un intelligentissimo sistema di setting della difficoltà, sarà possible anche variare la tempistica del parry e, paradossalmente, costruire un’esperienza su misura ancora più certosina. Detto questo, l’arrivo dello scudo e del contrattacco è come se avesse rallentato o disteso l’intero ritmo dei combattimenti. Ne conseguono scontri sempre affettati, ma un pizzico più strategici, in aree più grandi (talvolta troppo) e dense di nemici i cui attacchi saranno mortali senza un giusto tempismo nell’utilizzo dello scudo.
Le arene, come già detto, sono tante e spesso enormi. Anche qua, la strada si biforca. Se dà un lato l’ampiezza delle arene conferisce un senso ancora più opprimente e fastastico allo stesso tempo, dall’altro la sensazione di riempitura è un poco più presente. Le aree sono piene di nemici, è vero, ma ci sono anche direzioni da seguire, obiettivi da raggiungere, alle volte anche troppi e per molto tempo. A peggiorare il tutto, alcuni enigmi ambientali, che di per sé non sono un problema, ma stonano fortemente con quello che molti di noi si aspettavano da un gioco di questo genere. L’ultima critica è volta alle cavalcature, siano essi robot o creature di dimensioni mastodontiche. In quei punti il gameplay soffre abbastanza, restituendo un’esperienza superficiale e non del tutto gradita.