Le luci si spengono poco a poco, i bassi tuonano, il suono sale fino a prendersi l’intera sala. Siamo tutti al buio ovviamente, ma con Christopher Nolan e almeno nella mia esperienza, non è mai lo stesso buio che puoi trovare in un altro film. E’ un buio diverso, carico di aspettative, che ti fa respirare un’atmosfera più densa ogni volta. Quando l’immagine si accende, non vedo l’ora di tuffarmi in quelle aperture che solo Nolan è in grado di realizzare: accattivanti e piene di nitroglicerina. Insomma, me ne sto lì, tutto pronto a vedere ogni cosa esplodere e prendere il volo. E, come quasi il resto degli altri intorno a me, io mi aspetto tanto. “Ma devo restare concentrato” mi dico, “sono qui per dare uno sguardo critico, analitico, e non posso permettermi di cominciare a fare wohooooo quando il film non è manco iniziato” allora mi bevo un sorso d’acqua per concentrarmi – lo so non c’ha senso – e, finalmente, la prima scena mi passa davanti agli occhi. E fa così anche la seconda e la terza, anche tutto il resto del film. E prima che questa recensione possa cominciare davvero, ti dico che esco dalla sala un po’ morto dentro, perché quello che ho visto per due ore e mezza m’ha dato la stessa sensazione delle legnate emotive che t’arrivano in bocca al termine di una lunga relazione tossica. Praticamente me ne sto in piedi, ancora carico di aspettative costruite su pregressi di una certa qualità, non solo provando una grande delusione per come sono andate le cose, ma anche e soprattutto: sentendomi fottutamene a disagio per non aver capito niente di quello che è appena successo – pure un po’ in colpa, perché boh forse sono io, o forse è il film, e chi lo sa, solo il distacco e l’orrore mi daranno le risposte che cerco.
So soltanto che sono da solo, con un buco nel petto enorme, devo prendere il treno per tornare a casa e c’ho pure fame.
Perché sì, Tenet è un film piuttosto bruttino. Un film piuttosto bruttino che non vorresti rivedere per non sentirti stupid@, non immaginando neanche che in realtà quella che ti è appena stata propinata è una grande e per nulla accurata supercazzola.
Cominciamo.
Cos’è Tenet? Praticamente è una parola affidata a un gesto con le mani che fanno alcuni personaggi del film per spiegarti un procedimento spazio-temporale che non verrà mai mostrato in maniera più precisa. Tutto quello che ti verrà detto su Tenet, oltre al gesto di cui sopra, ti porterà a voler tornare nel momento in cui hai visto per la prima volta uno di questi personaggi fare sta roba con le mani perché in realtà era molto più semplice – sebbene non meno criptico – di tutto quello che stai vedendo in questo o quell’altro momento del film. E da qui arriviamo al primo problema: la premessa narrativa. Ora, per chi non lo sapesse, la premessa in un film è di solito la prima immagine che viene inquadrata, qualcosa che offre allo spettatore un’impronta visiva chiara – anche se narrativamente ancora tutta da scoprire – del film stesso. Si pensi a The Prestige, del medesimo regista: una marea di cappelli a cilindro che vengono inquadrati gettati disordinatamente su di un campo in una foresta inglese alle prime luci del mattino. Quello che capisce lo spettatore, sicuramente aiutato dal titolo del film, è che la trama ruoterà attorno a dei prestigiatori, tanti prestigiatori, forse troppi (lì Nolan fa anche una bella strizzata d’occhio) e che grazie all’atmosfera grigia e acquosa dell’immagine, la storia verrà sottolineata da un tono profondamente drammatico, o quanto meno malinconico. “Alcuni illusionisti finiranno col fare qualcosa di molto triste”, ditemi voi se questo non è The Prestige!
La premessa narrativa è quasi uguale, ma la si può trovare non in un’immagine quanto nei primi minuti di film, e aiuta lo spettatore a farsi un’idea chiara della narrativa dell’opera in sé. Ritorniamo a The Prestige. Ancora prima della fine del primo atto, capiamo che i due protagonisti sono “vecchi amici in conflitto tra loro nell’ambito a cui appartengono: quello artistico e professionale dei Prestigiatori”. Quello che accadrà dopo, per quanto criptico (ma neanche troppo) e ben congegnato (assolutamente ben congegnato) sarà solo una conseguenza devota all’evoluzione di quanto presagito nei primissimi minuti del film. Tutto è chiaro, nulla è lasciato indietro, si può solo che andare avanti.
Ecco, questo con Tenet non accade.
Fin dai primi minuti veniamo catapultati in un coacervo di cose che si susseguono a una velocità allucinante, a tal punto da provare una fatica assurda nel comprendere l’obiettivo del protagonista, che si ritrova a sua volta proiettato in una missione da cui dipende il destino dell’umanità. E via di Tenet e gesti con le mani. Ma non è ancora tutto da buttare: l’obiettivo del protagonista lo si comprende – con difficoltà, ma vabbé – e quello che pare il suo primo passo nella trama diventa più o meno chiaro. Nonostante la mancanza della premessa, soffocata probabilmente da qualcosa che non riesco neanche a definire se non servendomi di onomatopee quali BANG WHAM BOOM KRAKOOM SIGH! Il film inizia, stavolta sul serio, e da lì arrivano i veri problemi.
Il film si articola su un itinerario narrativo realmente confuso, posto inizialmente in questo modo come parte integrante del tono stesso della storia, quasi come se l’intenzione fosse quella di farti sentire disorientato quanto il protagonista dell’opera. Il problema, il primo e uno dei più importanti, è che il protagonista non è per nulla disorientato, ha solo la pretesa di esserlo. Tutto quello che gli viene spiegato (esatto, “spiegato” ma poi tornerò sull’argomento) è per lui quanto di più facile si possa comprendere. Non lo si vede mai combattuto o preso dall’incertezza, e quando ha dei dubbi, non fa in tempo a trasmetterli allo spettatore, che spalanca la bocca per porre i suoi interrogativi. Domande che prontamente ricevono una risposta lunga e complessa, la cui natura vive soltanto nella costruzione realistica (piuttosto arrogante a mio dire) di tutto l’ordito chiaramente sci-fi. Quasi come se, tra le righe, i personaggi ti volessero dire “so che sembra complesso, ma sappi che lo è perché questa è fantascienza di alta qualità e se non ti impegni per capirla allora non è un nostro problema”. Questo è sbagliato per due motivi:
Il primo: mai, mai far sentire stupido chi ti guarda/legge/ascolta. Al di là di mere questioni di mercato, semplicemente non è una bella cosa. Qua non siamo in un salottino intellettuale, e devi permettere a tutti di capirti, anche se la tua è un’opera complessa, devi offrire gli strumenti. Un esempio è 2001: Odissea Nello Spazio. Quello è un film dagli infiniti piani di lettura, di una complessità immensa e di una grandezza inquantificabile, ma quello che succede nel film e quello che dicono i personaggi al suo interno è tutto, meno che incomprensibile. Lo guardi tu, lo guarda il tuo amico boro del baretto all’angolo, lo guarda tua nonna, non fa differenza: la trama è quella e tutti la capiranno.
Il secondo: mai far sentire stupido chi ti guarda, soprattutto se chi ti guarda non è davvero stupido. Lo so, è quasi uguale al primo motivo ma c’è una differenza: che in generale esiste sempre qualcuno che si accorge della trappola sotto il tappeto quando la trama che costruisci si erge su nozioni senza arte né parte e che punta sulla lunghezza di dialoghi messi lì per (non)spiegarti quello che succede giusto per darti un senso di continuità. Diamine, in dei momenti sembrava di leggere i Fantastici 4 degli anni ‘80. <<Il reattore è costruito su una dissimulazione dei raggi gamma che dal sole toccano gli emisferi della luna e quindi la bipolarità delle particelle beta finisce col trasmutare ogni essere umano in una sorta di mucca-sauro.>>
<<Argh! Maledetto Destino!>>
Ok, dov’è il mio contratto a vita con la Marvel?
Ma il film procede finché non arrivano i momenti in cui alcune cose tornano indietro mentre altre se ne vanno in avanti. Da un punto di vista prettamente registico, la meccanica degli oggetti/persone a ritroso fa la sua bella figura. Mentirei se dicessi che non è uno spettacolo per gli occhi poter godere di certe scene meravigliosamente coreografate, orchestrate da questa macchina da presa sporca e allo stesso tempo certosina, e gestite sulla dinamica del tempo che scorre invertito. Ma non basta. La verità è che non basta. Si ha la sensazione di trovarsi di fronte a tanto buon materiale terribilmente ostracizzato da una sceneggiatura che non dà mai un senso del tutto chiaro a quello che vedi. Che poi, passi il non detto di alcune dinamiche, quello può anche essere interessante, ma il punto è che qui viene sempre specificato e in una maniera fuorviante nei confronti di chi guarda. E finalmente arriviamo agli spiegoni: minutaggi interi di dialoghi dove un personaggio X dice al protagonista quello che è successo plus quello che sta per succedere, preparandolo a ciò che si profila come il momento più assurdo da vivere e da cui dipende il precario destino di ogni cosa. E mentre si guarda il film quasi si ride per le risposte del protagonista stesso che possono tradursi in una marea di <<Sì>>, <<Ok>>, <<Chiaro>>, <<Ho capito>> posti a intervallare sti mallopponi di frasi e parole sputate a tutta randa dai comprimari. Personaggi che non prendono fiato, che non si aprono, che non creano ponti né tra loro e né con lo spettatore. Ci si ritrova a un certo punto con questo nutrito gruppo di individui che hanno stabilito dei legami ma di cui tu, spettatore, non ne conosci il peso emotivo. Puoi immaginarlo, alla fine si parla di stereotipi: il protagonista, l’amico che nasconde un segreto, la bella in difficoltà, quindi viene da sé un’idea più o meno chiara alla base dei loro legami, ma allo spettatore non giunge nulla di preteso, desiderato. Quelli si amano, quello lì ha fatto delle cose importanti, alla fine quegli altri hanno fatto amicizia. Ok, ma per il resto è zero: sono fantasmi, involucri a cui non ci si affeziona davvero. Gente che si sacrifica per il bene superiore ma che, per una tremenda caratterizzazione interna, non porteranno lo spettatore a empatizzare. E diventa un peccato quando, tra le altre cose, ci si trova di fronte a un cast stellare che però non viene sfruttato a dovere.
Un’altra pecca relativa alla trama insorge in un paio di punti che il film utilizza per dare allo spettatore quelle due o tre scene chiave prelevate con lo stampino da “Il manuale di chi vuole scrivere storie sui viaggi nel tempo”. Non cercatelo, questo libro non esiste o forse deve ancora essere scritto. Comunque, tra l’inutile complessità dello svolgimento, Nolan infila due passaggi in particolare, anche stimolanti, ma che non vanno oltre la poetica del ritorno, tipica delle storie riguardanti i patatrac spazio-temporali, e che finiscono per essere solo e soltanto telefonatissimi. Da un lato mi rendo conto possano anche piacere a chi è distante da certi svolgimenti narrativi, ma dall’altro, devo dirlo: se amate il genere, questi dettagli vi appariranno banali e realizzati appositamente per gli spettatori della domenica che sul viaggio nel tempo hanno visto solo Back to the future (che comunque tanta roba). E su questo non voglio dilungarmi perché altrimenti andrei nello spoiler.
Dulcis in fundo: il montaggio. Andiamo per gradi. Come quasi tutte le opere di Nolan, ci si trova ad ascoltare un montaggio sonoro potente, d’impatto, che non lascia scampo. Almeno su questo, il film resta fedele alle aspettative e supporta un’atmosfera che quasi solo grazie all’audio sicuramente vi coinvolgerà. Per quanto riguarda il montaggio stesso del film, c’è un problema che, soprattutto all’inizio, rende difficoltosa la visione. Tagli frequenti, stacchi veloci, e non soltanto quando la situazione (magari una bella scena d’azione) lo richiede per l’economia dell’atmosfera. Ci si troverà spesso di fronte a momenti in cui due personaggi hanno uno scambio in termini di battute, tagliati quasi nel momento in cui finiscono di parlare. Questo crea uno strano senso di spaesamento, che non concede agli attori stessi di supportare con il silenzio o con un’espressione in particolare ciò che dicono, e che porta lo spettatore a non essere realmente concentrato su quanto discusso nel dialogo stesso. Non so ancora se sia o meno una scelta voluta, ma il fastidio c’era e l’ho provato nella sua interezza mentre guardavo il film.