Eccomi nuovamente a parlare di un altro videogioco approdato il 3 Settembre su PS5, dopo un’attesa non indifferente che ha visto il titolo come esclusiva temporale XBOX. Parliamo proprio di The Medium, ultima fatica del Blooper Team dal carattere suggestivo e inquietante.
Che ne dite, cominciamo?
Marianne è una spiritista che deve seppellire il padre adottivo, Jack, impresario di pompe funebri che ha dato modo alla ragazza di crescere allenando i suoi poteri sensitivi, proteggendola allo stesso tempo da un mondo ancora impreparato a conoscerla. Questo ha reso la donna molto abile con le sue capacità, ma altrettanto sola. Dopo aver sistemato per l’ultimo viaggio il corpo del padre adottivo, Marianne riceve una telefonata da un uomo, Thomas, che le chiede di essere trovato all’hotel Niwa. La fine della ricerca, promette Thomas, corrisponderà alla rivelazione che si cela dietro l’origine dei poteri di Marianne. Questa è la premessa che muove i passi della sensitiva nella storia di The Medium e, per quanto semplice, l’itinerario narrativo offre un antipasto piuttosto succulento. Le altre portare riusciranno a sostenere una simile qualità?
La risposta è: non tanto. Partiamo dal difetto più rilevante e togliamoci subito questo sasso(lone) dalla scarpa: la trama di The Medium non arriva in alto. Fin dall’inizio ci si trova di fronte a un personaggio principale che non brilla per la sua caratterizzazione, e che in fin dei conti non sembra approfondire neanche l’aspetto emotivo di una ricerca importante come quella che lo ha spinto a intraprendere il suo viaggio. Allo stesso modo, i comprimari sono sufficienti a condire una storyline che, di base, sarebbe stata fin troppo povera di contenuti. Qui si arriva a un altro problema attribuito alla narrazione: il percorso intavolato in fase di scrittura si prefissa di raccontare la trama principale arricchendola con il background di alcuni personaggi, e sono proprio questi aneddoti che impoveriscono l’ordito. In primo luogo: sono raccontati , spesso, mediante la vera e propria voce di questi personaggi, e nonostante si attraversi la rappresentazione grafica di queste storie (che può essere un paesaggio in cui muoversi attivamente o un filmato), la storia resta raccontata e non del tutto vista, o vissuta. In secondo luogo: queste sotto trame vogliono essere tragiche e pretendono di affrontare tematiche difficili, per non dire spigolose, ma non approfondiscono in maniera realistica ciò che dovrebbero, finendo col presentare qualcosa di poco convincente e soprattutto emotivamente svilente nei confronti delle tematiche stesse. In ultima istanza: il modo che queste storie secondarie hanno di avvilupparsi intorno alla trama principale al fine di rafforzarla, in realtà la impoverisce, perché compromette il climax dell’agnizione finale, portando la concentrazione del giocatore su piani che non corrispondono alla rivelazione proprio perché scevra di un pathos che in grado di sostenerla. Per intenderci, si è troppo presi a pensare agli altri personaggi per la forza dei loro traumi, piuttosto che rendersi conto di quello che ha scoperto la protagonista – e di per sé, poi, il plot twist non è neanche così spaccamascella; appare scontato, soprattutto se si gioca cercando di leggere tutti i documenti e recuperando i vari collezionabili.
Un altra critica che va mossa la si ritrova nella costruzione del gameplay, e nell’idea di base che lo permea, unito ad alcuni elementi di regia nel gioco. La telecamera fissa, la tipologia di movimenti, la lentezza con la quale il gioco si fa portare in termini puramente ludici, tutto questo rimanda a Silent Hill, e il revival funzionerebbe se non fosse, in gran parte, tremendamente ingessato. Le azioni da intraprendere sono estremamente limitate – e limitanti – e non fanno più dell’indispensabile. Stesso discorso per il ritmo del gioco, che alterna fasi di pseudo indagini – veramente facili da portare a termine, anche in fase di enigma – a momenti in cui lo scopo è semplicemente quello di fuggire. Sembra che non si sia puntato a nulla, se non a riproporre un tipo di gioco che poteva essere digerito, però, negli anni ‘90.
A controbilanciare il tutto interviene la direzione artistica, a tratti splendida, di base squisita. Gli scorci delle – seppur poche – ambientazioni di The Medium sono fantastiche e curate nei minimi dettagli, e la regia si salva in corner quando la visuale si divide, dando modo a Marianne di muoversi in due mondi – quello dei vivi e quello dei morti – nello stesso momento. Il gameplay resta basilare, ma la cura dell’aspetto visivo è alta e promette grandi soddisfazioni per l’occhio. Ciò che si vede è, al peggio, suggestivo, e si fa ancor più intrigante se si gioca con le cuffie, godendo al meglio del magnifico montaggio sonoro e delle musiche orchestrate dall’autorevole Akira Yamaoka. Insomma, un verso spettacolo per occhi e orecchie.