PANTAFA, con la regia di Emanuele Scaringi e la produzione di Fandango e Rai Cinema, ci immerge in una storia horror italiana che permette di toccare la tradizione folkloristica abruzzese.
La storia permette allo spettatore di accompagnare Marta – Kasia Smutniak – e la figlia Nina – Greta Santi – alla scoperta di un paese apparentemente fantasma, Malanotte (un nome, un indizio) e della sua tradizione travestita da realità. Provenienti dalla città, le due protagoniste, prive di una backstory, si ritrovano davanti ad un contesto totalmente opposto: pochissime persone, paesaggi fantasma, tutti, o quasi, i bambini rinchiusi in casa e bucolicità galoppante. Le due protagoniste vanno a vivere in una casa di campagna abbandonata, un’ottima ambientazione da inserire nel contesto horror, e si ritrovano circondate da quelle poche persone che frequentano attivamente il paese. Nelle notti, fin dalla prima, si manifesta quello che risulta essere il fulcro della narrazione, la tradizione della Pantafa, “un’anima in pena che non prende i bambini buoni e che, una volta trovato ciò che vuole, se ne va“, concentrandosi particolarmente su Nina e impedendole, ogni notte, di dormire serenamente. Lo sviluppo della storia, poi, immerge lo spettatore in un intricato sviluppo di scene che culminano in un finale risolutivo per le protagoniste ma, fortunatamente, non scontato, ansioso e dinamico.
La storia viene presentata fin da subito nella sua inquietante impostazione, puntando molto su una selezione cromatica delle scene particolarmente fredda, priva di colori caldi e con fonti luminose marginali, fatta eccezione per un numero di scene limitate. Coerentemente con tale scelta, anche le scene fuori, con colori potenzialmente più caldi, risultano cupe e cromaticamente spente. Le inquadrature ci permettono di passare da belle visuali panoramiche e suggestive, anche del paese Malanotte, a riprese ansiogene ed inquietanti interne alla casa. Parallelamente, la colonna sonora risulta tanto vivace quanto lenta e cupa, seguendo coerentemente le diverse scene, dai sonni rovinati di Nina al ballo da bar di Marta.
Ciò che però colpisce di più di questa pellicola è la scelta, diversa dalla stragrande maggioranza dei film del genere, di evitare le scene jump scare, non banalizzando, dunque, il concetto di horror ma elevandolo a ciò che genera ansia, ciò che fa preoccupare le persone che lo guardano, e non spaventare a titolo gratuito. Un connubio ansiogeno di scene, accompagnate dalla fredda cupezza cromatica, che svela gradualmente la forma della vecchia signora, partendo da una sensazione, un’ombra, una mano, un braccio, tutto il volto e, dunque, arrivando a tutta la figura, nella sua inquietante e ben realizzata sagoma. Tale scelta consente di rendere tangibile ciò che nella tradizione viene visto come soprannaturale, svelandolo, però, man mano che si procede nella narrativa, mantenendo sempre un velo di mistero che serve come ausilio alla generazione di ansia.
Le interpretazioni degli attori aiuta l’immersione nella storia, la crescita dell’ansia e la tangibilità della tradizione passando dalle due protagoniste all’aggiustatutto Andrea – Mario Sgueglia – in primis, alla balia Orsa – Betti Pedrazzi – a Franco – Mauro Marino – al dottore – Giuseppe Cederna – e all’uomo di campagna – Francesco Colella – poi.
Il film, nei suoi 105 minuti, merita sicuramente di entrare nelle nostre librerie di titoli visti dal 30 marzo 2023.