Eccoci di nuovo con un’altra recensione: quella inerente al nuovissimo titolo targato Cyanide Studio, vale a dire Call of Cthulhu.
L’arduo compito di parlarvene è toccato a me (diciamo che me lo sono andato proprio a cercare, da buon fan), e non vedo l’ora di entrare più nel dettaglio in merito alla recensione che sto per proporvi, ma prima, come ogni volta, desidero rassicurarvi. Questa recensione sarà infatti priva di spoiler. Togliendo l’incipit che insomma, serve a darvi un’infarinatura generale del titolo, i dettagli narrativi che verranno elencati saranno presi con le dovute precauzioni, andando ad analizzare soltanto l’aspetto tecnico della drammaturgia di Call of Cthulhu e cercando, nella maniera più efficace possibile, di dirvi tutto senza dirvi niente, in poche parole. Detto ciò, che ne dite di cominciare?
Edward Pierce è un reduce della prima guerra mondiale che per sbarcare il lunario si è aperto, per conto di un’agenzia, uno studio d’investigazione privata. I logoranti ricordi bellici lo costringono purtroppo a cercare conforto sul fondo della bottiglia, portandolo a trascurare i suoi doveri da investigatore e mettendolo in conflitto con le sue ambizioni. Il desiderio di Edward è infatti quello di lavorare a casi davvero speciali, e non la solita solfa riguardante l’adulterio o piccole questioni di vendetta. Tutto cambia quando un tale gli propone di scoprire cosa si cela dietro la prematura scomparsa della figlia: Sara Hawkins, morta in un incendio che ha visto coinvolti anche il figlio e il marito Charles. Messo alla strette dall’agenzia investigativa, Edward è quindi costretto a dirigersi nell’isola di Darkwater dov’è situata la villa degli Hawkins, luogo in cui è avvenuto il decesso della povera Sara.
L’incipit, dal carattere classico per quanto riguarda gli stilemi delle narrazioni Noir, coincide fluentemente con gli starting point Lovecraftiani. L’archetipo del Ricercatore della Verità proiettato in una lenta parabola discendente che lo condurrà nella follia più pura. Il tutto colpisce infatti per la sua semplicità. Classico, come detto in precedenza, ma assolutamente intrigante, soprattutto se si pensa al nome del titolo stesso e alle fonti da cui quest’ultimo attinge.
Il meccanismo narrativo, una volta innescato, proietta il giocatore in una lunghissima fase investigativa che lo vedrà coinvolto in ricostruzioni di scene del delitto condite da quel senso di “mi sto misurando con forze decisamente fuori dalla mia portata” tipico delle sensazioni emanate dai protagonisti che Lovecraft ha scritto nel tempo. Per tutta la prima metà del gioco infatti, il mood fortemente narrativo concilierà dignitosamente con un gameplay che inizialmente non avrà grandi pretese. Ci si ritroverà costantemente a parlare, seguendo molteplici linee di dialogo che influenzeranno apparentemente lo scorrere degli eventi, intervallando a piccole sessioni che oltre all’investigazione ci consentiranno di esplorare l’ambiente nel tentativo di scoprire, attraverso degli oggetti, qualcosa in più sul world building appartenente a Darkwater. In tutto ciò, molteplici saranno i rimandi agli scritti più noti del famosissimo autore di Providence. Call of Cthulhu infatti, non si basa soltanto sul maggiormente conosciuto ciclo dello scrittore (Il Richiamo di Cthulhu), ma attinge da tutte quelle caratteristiche che lo contraddistinguono. Tematiche come il viaggio in luoghi esotici e manufatti antichi, circondati da un’aura malvagia, saranno soltanto la punta dell’Iceberg, considerando che il titolo stesso strizzerà l’occhio ai fan più accaniti riportando momenti che non potranno che ricordare il buon vecchio Herbert West o l’oscurità tecnologica e metafisica toccata con Dall’Ignoto.
I fan saranno sufficientemente accontentati, perché in fin dei conti si troveranno di fronte a un’opera che più o meno riesce nell’onorare H.P. Lovecfrat, almeno per quanto riguarda il tono generale che la trama sostiene per tutte le 8/9 ore che dura il videogioco stesso, ma… c’è sempre un ma.
Ricordate che poco sopra ho utilizzato frasi come “un gameplay che non inizialmente non avrà grandi pretese” o anche “ linee di dialogo che influenzeranno apparentemente lo scorrere degli eventi”? Ebbene è giunto il momento di far luce su questi dettagli e di esplicare quelle che sono, a mio parere, le forti note dolenti del titolo in questione.
Per quanto concerne le linee di dialogo, va per forza di cose specificato come queste influenzino soltanto un aspetto e in maniera non del tutto convincente: la raggiunta dei quattro finali possibili. E’ bene precisare come questi finali siano supportati anche da alcune azioni nel gioco stesso (lettura di libri proibiti, uccidere o meno alcuni personaggi, recuperare oggetti nascosti) e non solo le linee di dialogo, che comunque sia rimangono il fattore centrale per l’approssimarsi di uno qualsiasi di questi finali. Il problema si sostiene nel fatto che oggettivamente nessuno di questi finali sembra soddisfare pienamente alcuna aspettativa. Dal più buono, al più cattivo. Senza scendere in dettagli allarmanti, Cyanide ha fondamentalmente sprecato un’occasione che già di per sé era supportata da una fanbase più che nutrita, e anche sul finale che quasi certamente avrebbe accontentato la suddetta, lo studio in questione non ha osato. Le scelte dialogate del giocatore lo condurranno a finali tra l’altro poco differenti fra loro nell’ambientazione, e un poco forzati per delle meccaniche interne alla drammaturgia del titolo che, nella seconda metà, sfocia spesso in spiegoni difficilmente appetibili.
La seconda critica va certamente mossa nei confronti di un gameplay che, come detto inizialmente, mostra una grande seppur semplice armonia, purtroppo in seguito stravolta da un taglio netto diretto a quest’ultima. Alcuni capitoli (sono 14 in tutto) saranno interamente dialogati, detraendo quel gusto magico e folkloristico dedicato all’esplorazione degli ambienti e alla relativa investigazione. D’un tratto poi, il titolo catapulterà il giocatore in alcune sessioni FPS, macchinose e mal gestite, che non lascieranno spazio a fraintendimenti, dando la forte sensazione di non essere state curate dignitosamente e smorzando l’atmosfera proprio sul finale. Oltre a ciò, in alcuni momenti vi saranno delle sessioni di gioco che assomiglieranno fin troppo a titoli come Amnesia, dove il crollo dello stato mentale di Edward si presenterà quasi come una copia forse troppo dichiarata di altre meccaniche viste e riviste, e parlo anche dei momenti in cui ci si vede costretti a trovare un nascondiglio per paura di essere trovati.
Da qui sorge una terza critica, quella al comparto grafico. Call of Cthulhu non è un videogioco da tripla A, questo è certo. Nessuno si aspettava qualcosa di graficamente esagerato, eppure mostrarsi attraverso un comparto grafico che, togliendo un capitolo finale nello specifico, non regala nulla agli occhi, fa un po’ male dentro. In alcuni momenti si ha la netta sensazione di essere di fronte a un gioco dalla grafica e dai modelli poligonali anacronistici, quasi come se fosse un titolo ultimato nel 2010 ma proposto oggi. Perfino le cutscene in cui si presuppone un impegno più elevato nell’elaborazione grafica, non riescono a soddisfare. Stesso discorso applicabile al sonoro, che al di là di un buon doppiaggio inglese, non fa delle proprie ost qualcosa di esaltante, rendendo il tutto facilmente dimenticabile.