Quattro ragazzini entrano in una banca. Potrei fermarmi qui. Sul serio. Un titolo del genere è come un pugno sulla tempia, lo senti così tanto da stramazzare svenuto e se non lo senti vuole dire che ti ha preso talmente bene che sei morto. Non solo nel titolo è descritto l’incipit dell’opera (che se leggerete, vi renderete conto che i quattro ragazzini nella banca sono solo la punta dell’iceberg) ma è talmente semplice ed efficace da suscitare già un sorriso sul volto di chi non sa nulla di nulla di questo fumetto, e ne legge solo il nome. Quattro ragazzini entrano in una banca.
E’ la storia della piccola Paige, ragazzina orfana di madre che vive col suo papà, il Sig. Turner, un uomo purtroppo povero, ma affettuoso e tanto disponibile con sua figlia da essere quasi un amico per lei. Paige vive le sue giornate coi suoi amichetti di quartiere, il buffo Berger, Stretch che è anche il più alto di tutti e Walter, bassino, silenzioso e fin troppo amante della matematica. Paige e i suoi amici passano le giornate nelle sale giochi, scorribandando per la città masticando caramelle e giocando a Dungeons & Dragon. Nonostante la povertà e il rammarico di non avere una mamma nella propria vita, Paige vive il suo quotidiano con serenità e divertimento, ma tutto viene sconvolto quando un manipolo di delinquenti, vecchi amici del Sig. Turner, non piombano in casa della ragazzina con il solo intento di far tornare suo padre il rapinatore che era un tempo. Riuscirà la piccola Paige a impedire che questo accada? E soprattutto, ci credereste se vi dicessi che quello che vi ho appena detto è racchiuso soltanto nel primo capitolo, motore di tutta la storia?
Come è possibile riscontrare dalla nutrita descrizione che ho qui sopra riportato, Quattro ragazzini entrano in una banca (che ora lo dico: è una minierei di cinque albi raccolti in un unico meraviglioso volume targato Panini Comics) si prospetta come una storia di formazione piuttosto atipica. Un viaggio pulp ma infantile, che condurrà la piccola Paige e il suo gruppo di amichetti alla scoperta di se stessi, alla crescita, e soprattutto ad uno scontro diretto con quella che è la comprensione del male, non solo esterno (nella minaccia dei delinquenti amici del Sig. Turner) ma anche interno, nel cuore della protagonista.
La drammaturgia di Rosenbergh (che nel fumetto indipendente già si era fatto conoscere con We Can Never Go Home) si articola quindi su due fasi, una puramente narrativa ed una del tutto intima, dove crescita personale e progressione della storia vanno di pari passo, e dove l’autore si prende la briga di mostrare a chi legge il male dal punto di vista di un bambino. Su quest’onda mi è stato praticamente impossibile non ritrovare nella scrittura di Rosenbergh l’influenza di Golding e del suo Lord of Flies, soprattutto nel finale, dove il male si fa empirico e dove i piccoli, con crudeltà e innocenza, s’immergono in esso.
Un altro punto a favore di questo fumetto è certamente dato dal contributo artistico del buon Tyler Boss, un disegnatore tanto essenziale quanto minuzioso. La sua essenzialità la si riscontra nel modo in cui articola i volti: semplici, puliti, ma mai privi di carattere. La minuziosità invece è ben più che palese nel modo in cui descrive gli ambienti, curati e delineati alla perfezione, ma anche il design dei personaggi. La peculiarità che a mio vedere contraddistingue questo disegnatore la si riscontra però nel modo in cui riesce ad ingabbiare le vignette di ogni tavola: un’orchestra pop che figura in ogni pagine e che non potrà che ricordarvi la maestria di un altro grande nome del disegno: Craig Thompson (Deadly Class).